alzheimer city

 

 

riduzione e libero adattamento a cura di Carina Panier-Bracher 

 

Una città con la reception, la piazzetta, la strada principale bordata di tigli e vasi di ortensie da cui partono i vialetti di case col giardino o la veranda, un ristorante dall’arredo minimalista, un piccolo supermercato, il parrucchiere, l’ambulatorio del medico. Villaggio turistico? Quartiere residenziale? Improbabile che chi arriva qui senza sapere riesca a indovinare. Benvenuti ad Alzheimer city, la città dei senza memoria.

Questo paese in miniatura ai margini di Weesp, cittadina a un quarto d’ora di treno dal centro di Amsterdam è una casa di cura per malati di Alzheimer. Chi vive qui è demente, questo il termine usato dalla medicina, e probabilmente non si rende neppure conto di trovarsi in un ambiente protetto dove le persone che aiutano a pulire o a far da mangiare, la cassiera del supermercato, la parrucchiera, sono infermiere, badanti, assistenti pagate per sorvegliarle e accudirle. Una finzione? Una messinscena a uso e consumo di chi è ormai inconsapevole di sé e del mondo?

Hogewey, così si chiama questo posto, è stato anche paragonato a The Truman show, il film in cui la realtà intorno al protagonista è un set televisivo, e le persone sono attori. Di sicuro è un esperimento unico cui le autorità sanitarie di mezzo mondo guardano con interesse e sta per essere replicato nella Svizzera centrale. Per ospitare i malati di Alzheimer e demenza, oggi quasi 36 milioni, non basterebbe la megalopoli più grande del mondo. E la città sarebbe comunque destinata a esplodere nei prossimi decenni, via via che la popolazione invecchia. E che nessuna cura è in vista.

I residenti di Hogewey, così li chiamano qui, non pazienti, vivono riuniti a gruppi di sei o sette nelle 23 case del villaggio. Oggi sono 152. Gli assistenti si alternano nelle abitazioni da mattina a sera e coordinano la vita quotidiana: spesa, pulizie, preparazione dei pasti, visite dal dottore, e le varie attività, il club della musica folk, quello di musica classica, il laboratorio di artigianato o quello di cucina. Di notte in casa restano solo loro, i residenti. Un sistema di allarme scatta se percepisce movimenti strani, magari qualcuno che cade dal letto, e allora un sorvegliante entra a controllare. Non ci sono porte chiuse e ognuno gira dove vuole, anche se c’è un’unica uscita, sorvegliata, che porta all’esterno. I parenti possono venire in visita a qualsiasi ora, il villaggio è aperto ai «normali», che possono cenare al ristorante o fare compere al supermercato.

Sulla veranda di una delle case, ombrellone bianco, poltroncine e tavolo di tek che non sfigurerebbero in un bar sulla spiaggia, sette donne sono sedute di fronte a un gelato e a una spremuta d’arancia. Toos, che dice di avere quasi 80 anni e di essere «di vicino Rotterdam», si offre di mostrare la casa. Fa caldo ma lei ha indosso un piumino nero da inverno. La cucina è arredata con mobili e pensili bianchi, moderna. Nella pentola sul fornello ci sono patate pelate e fagiolini, per la cena della sera. «Toss, lei cucina?». «Solo a casa mia. Qui vengo la domenica» risponde, come se fosse di passaggio. Oggi però è giovedì e lei non si muove di qui da tempo. Come molte delle sue coinquiline, nella vita di prima era una casalinga. «La sera all’ora di cena alcune di loro aspettano il marito. Guardano l’orologio e si preoccupano: “Non è ancora arrivato”» racconta Anja Almer, 36 anni, da pochi mesi assistente della casa in stile «homely», casalingo appunto.

A Hogewey gli appartamenti sono progettati e arredati secondo sette stili di vita individuati da una società di ricerca nell’intento di ricalcare la struttura sociale olandese. E anche la vita quotidiana è dettata da questi stili. Oltre alla «homely», riservata alle persone che avevano un’occupazione domestica, c’è quella a tema «upper-class», per i ricchi borghesi; quella di stile «urbano», per chi viveva in città; «tradizionale», destinata a ex artigiani e commercianti; «cristiano», se la religiosità era spiccata; «culturale», se il residente aveva una professione intellettuale, o «indonesiano», dove fra statuine di Buddha vivono immigrati dalle ex colonie olandesi. «Niente di diverso da quello che vogliamo nella vita» dice senza alcuna ironia Isabella van Zuthem, responsabile dell’ufficio comunicazione di Alzheimer city. «Essere circondati da persone che ci somigliano». «Vivere la vita come al solito» è il motto di qui. In un ambiente il più possibile simile a quello di prima, circondati da persone che avevano le stesse abitudini, magari condividevano idee e gusti, è la teoria che vige a Alzheimer city, i malati riescono a integrarsi con più facilità e gestirli è più semplice. «Del resto, questo non è un ospedale dove si sta per poche settimane» chiosa van Zuthem. Chi entra, rimane fino alla fine.

Alzheimer city esiste in questa veste da tre anni. Prima era una casa di cura e di riposo tradizionale. Quando, alla morte dei genitori, due dei fondatori si trovarono entrambi a pensare «per fortuna non sono dovuti venire qui», è cominciata l’evoluzione. Prima sono state garantite ai residenti camere separate. Poi è stata aggiunta una cucina in ogni edificio. Infine la clinica è stata abbattuta e al suo posto è sorto il villaggio, costato 19,3 milioni di euro e finanziato quasi interamente con soldi pubblici. La retta mensile, circa 5 mila euro, è in parte pagata dal governo, in parte dai residenti in base al reddito, come per ogni altra clinica nei Paesi Bassi. Stranamente, per essere un posto visitato di continuo da delegazioni di esperti (preso anche a modello per una struttura che l’imprenditore Markus
Voegtlin progetta di costruire in Svizzera), ad Alzheimer city dicono di non avere dati scientifici su quanto funzioni questo tipo di trattamento. Possono però fare il confronto tra il prima e il dopo. «Oggi usiamo molti meno farmaci, ci sono pochissimi casi di comportamenti aggressivi tra i malati, non capita mai di doverli legare» riferisce van Zuthem.

Fa pensare, questo posto. La demenza è una delle condizioni più tremende da immaginare per sé o per i propri cari. Dovendo scegliere, è meglio l’inganno di una città finta o la verità di una casa di cura? Chi sa di che cosa si parla non ha dubbi. Fanno sorridere gli stili di vita delle case di Alzheimer city ? Inquieta l’idea di essere catalogati in base al questionario preparato da una società di ricerca? «Niente affatto. È un esempio di come ci si può occupare della persona, invece che solo della sua malattia.

Entrando in una delle case a tema «alta società», l’odore ricorda letti d’ospedale, ma è solo un attimo. In soggiorno ci sono poltrone con una bella tappezzeria, il caminetto, lampadari a gocce sopra il tavolo di legno scuro e la scacchiera pronta come se qualcuno stesse per fare una partita. Qui la cucina non è a vista: impensabile, in una casa della ricca borghesia, pranzare tra i fornelli. Dopo poco comincia a diffondersi il profumino di una pietanza al curry. La cena di stasera fa parte del pacchetto di extra che ciascuna casa può decidere autonomamente di concedersi, magari vino buono o cibo più sofisticato di tanto in tanto. È stata preparata e verrà servita a tavola nei vassoi, da quella che probabilmente qui tutti scambiano per la cameriera.

Jo Jacobs è seduto al tavolo di fronte a due giornali. È un omone elegante, con i capelli bianchi pettinati da una parte. Saluta in inglese, al contrario delle persone incontrate finora, che si esprimevano in fiammingo. Racconta che aveva una fabbrica di montature di occhiali e che ha girato tanto per lavoro, in tutta Europa e negli Stati Uniti. Mentre parla, sembra non fare alcun caso agli altri ospiti della casa, alla donna seduta di fronte a lui con lo sguardo perso nel vuoto, o a quella sulla sedia a rotelle, che cantilena senza sosta. «Quando arriva il taxi per l’aeroporto?» chiede a un certo punto. Nella sua testa, Jacobs deve di nuovo essere in partenza per un viaggio. Si sta bene qui? «Oh, yes» risponde con entusiasmo. «Ci sono tante persone interessanti con cui parlare. E un sacco di buoni ristoranti».

 

C. Palmerini