le parole per dirlo: da idiota a persona con disabilità

 

 

introduzione ad una diversa senilità  

 

di Antonino Attanasio, Avvocato

 

Per comprendere la situazione esistenziale “anzianità” è opportuna una riflessione generale su come la comunità civile ha trattato quelle persone che, per incidenti, per malattia o per cause genetiche, presentavano diminuzioni o scomparsa di facoltà psico-sensoriali comuni.

 

A ben riflettere, la condizione “anzianità” non è altro che una condizione in cui un essere umano non ha più velocità, forza, capacità di intendere e volere lucidi come quando era in altra età, giovane e matura.

La comunità civile infatti comprende persone con normali capacità fisiche e sensoriali, comunemente definite normodotate, e persone con abilità ridotte, definitivamente o temporaneamente, dalla nascita o nel corso della vita.

La disabilità costituisce un fatto storico, una condizione umana mutevole: al pari di ogni vicenda umana è bisognevole di selezione di eventi rilevanti per il diritto, di regole di condotta, di elaborazione di concetti giuridici, di riduzione a tipi e schemi generali1.

 

Termini come idiota, imbecille e deficiente erano ritenuti scientifici, in quanto utilizzati da medici, psichiatri, psicologi, pedagogisti per riferirsi a diversi livelli di ritardo mentale. Si ricordi anche il termine mongoloide, usato per evidenziare la presenza di tratti simili a quelli degli abitanti della Mongolia e rivelatori della sindrome descritta dal medico inglese Langdon Down nel 1866.

 

In sostituzione di termini con valenza ormai dispregiativa, si è cominciato a usare l’espressione persona handicappata, portatore di handicap o con handicap, in situazione di handicap, disabile, diversamente abile.

 

La varietà della terminologia usata è il portato delle ideologie storicamente maturate nelle condizioni socio economiche delle epoche storiche e dell’influenza delle discipline scientifiche (medicina, psicanalisi, psichiatria).

 

Il progresso tecnologico e lo sviluppo delle tecnologie informatiche rendono ormai non più procrastinabile la riflessione sulla perdurante validità del paradigma tradizionale del diverso rispetto ad uno stato di normalità. Gli strumenti delle tecnologie moderne, informatici e meccanici, ormai, forniscono tanti supporti, consentendo di offrire un valido contributo alla società civile, sicuramente paragonabile, in qualità e quantità, a quello dei normodotati.

 

L’espressione diversamente abile, affermatasi di recente, è una definizione che comprende una scelta: invece di definire un’incapacità a fare qualcosa, evidenzia la differenza qualitativa nell’uso delle abilità.

 

Il “diversamente” vuole puntualizzare che, attraverso modalità diverse, si raggiungono gli stessi obiettivi. In alcuni casi questa espressione è adeguata: si pensi al caso di allievi non vedenti o ipovedenti che raggiungono adeguati risultati scolastici e sociali utilizzando le risorse visive residue (potenziate con adeguati strumenti) o abilità compensative (ad esempio quelle verbali).

 

In alcuni casi, però, l’espressione diversamente abile può risultare ingannevole, in quanto potrebbe “nascondere” che alcune prestazioni siano inferiori rispetto a quelle tipiche.

 

Occorre allora ridefinire in positivo il concetto di disabilità, valorizzando il ruolo dei servizi e delle tecnologie compensative offerti alle persone con funzionalità diverse da quelle ordinarie.

 

Il linguaggio deve di conseguenza subire una significativa mutazione, evidenziando le attitudini piuttosto che le incapacità, e fornendo al diritto concetti e istituti idonei a costruire un quadro normativo, che da un lato garantisca il rispetto dei principi costituzionali e dall’altro costituisca un insieme di regole idonee a gestire il cambiamento e la transizione verso una società umana realmente integrata, senza discriminazioni o distinzioni.

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità elaborò nel 1970 la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) funzionale all’esigenza di individuare la causa delle patologie, fornendo per ogni sindrome e disturbo una descrizione delle principali caratteristiche cliniche e indicazioni diagnostiche.

 

Successivamente elaborò la Classificazione Internazionale delle menomazioni, delle disabilità e degli handicap” (ICIDH). A differenza della prima, l’ICIDH non si focalizza sulla causa della patologia, ma sull’importanza e l’influenza che il contesto ambientale esercita sullo stato di salute delle popolazioni.

 

ICIDH non parte dal concetto di malattia inteso come menomazione, ma dal concetto di salute, inteso come benessere fisico, mentale, relazionale e sociale che riguarda l’individuo, la sua globalità e l’interazione con l’ambiente.

 

L’ICIDH è caratterizzato da tre componenti fondamentali:

 

- la menomazione, come danno organico e/o funzionale;

 

- la disabilità, come perdita di capacità operative subentrate nella persona a causa della menomazione;

 

-svantaggio (handicap), come difficoltà che l’individuo incontra nell’ambiente circostante acausa della menomazione.

 

Per la prima volta quindi si pone una distinzione semantica tra menomazione, disabilità e handicap (svantaggio).

 

È stato quindi giustamente rilevato che, in base alla definizioni precedenti, un non vedente è una persona che soffre di una menomazione oculare che gli procura disabilità nella comunicazione e nella locomozione e comporta handicap, ad esempio, nella mobilità e nella occupazione. Un unico tipo di menomazione può dar luogo a più tipi di disabilità e implicare diversi handicap.

La rivoluzione quindi consiste nel fatto che la menomazione ha carattere permanente e statico, mentre la disabilità è un concetto dinamico e dipende dall’attività che il soggetto è chiamato a svolgere. L’handicap infine esprime lo svantaggio che un soggetto ha nei confronti di altri individui.

 

Nel 2001 l’OMS elaborò un ulteriore strumento, la Classificazione Internazionale del funzionamento, disabilità e salute (ICF): descrive lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità.

 

La nuova scelta classificatoria dell’OMS tenta di costruire un linguaggio comune e condiviso, tale da tener conto della complessità che ogni individuo esprime attraverso il proprio percorso di vita. L’ICF coglie, descrive e classifica ciò che può verificarsi in associazione ad una condizione di salute, cioè le “compromissioni” della persona ed il suo “funzionamento”, tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione. L’ICF quindi non descrive le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in relazione al loro contesto ambientale e sottolinea l’individuo non solo come persona avente malattie o disabilità, ma ne evidenzia l’unicità e la globalità. In una sola frase è sintetizzata con chiarezza la portata innovativa del sistema appena implementato: l’ICF è applicabile a tutti, quindi non ci sono più persone speciali che hanno bisogno di trattamenti speciali; l’ICF valuta non solo lo stato a livello corporeo, ma considera parte integrante della propria classificazione le componenti personale e sociale.

 

Il presupposto teorico su cui si basa l’approccio ICF è che due persone con la stessa malattia possono avere livelli diversi di funzionamento, e due persone con lo stesso livello di funzionamento non hanno necessariamente la stessa condizione di salute.

 

La classificazione ICF dunque costituisce una rivoluzione nella definizione e nella percezione di salute e disabilità, dal momento che i nuovi principi evidenziano l’importanza di un approccio integrato, tale da tener conto dei fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica. La correlazione fra stato di salute e ambiente consente di arrivare alla definizione di disabilità come una condizione di salute in un ambiente sfavorevole.

 

Il documento ICF copre tutti gli aspetti della salute umana, raggruppandoli nel dominio della salute (health domain, che comprende il vedere, udire, camminare, imparare e ricordare) e in quello collegato alla salute (health-related domains che include mobilità, istruzione, partecipazione alla vita sociale e simili).

 

L’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutti: rispetto alle centinaia di voci classificate, a ciascun individuo può essere associato uno o più qualificatori che quantificano il suo “funzionamento”. Analoghi qualificatori esistono per le attività, per le quali si parla di restrizioni e per la partecipazione, per la quale si possono avere limitazioni. Infine sui fattori ambientali si hanno “le barriere”.

La classificazione è positiva e parte dal funzionamento per dire se e quanto ciascuno se ne discosta; rispetto alla classificazione ICIDH non c’è l’obbligo di dover specificare le cause di una menomazione o disabilità, ma solo di indicarne gli effetti.

 

A differenza delle precedenti classificazioni (ICD e ICIDH), dove veniva

dato ampio spazio alla descrizione delle malattie dell’individuo, ricorrendo a termini quali malattia, menomazione ed handicap (usati prevalentemente in accezione negativa, con riferimento a situazioni di deficit) nell’ultima classificazione l’OMS fa riferimento a termini che analizzano la situazione dell’individuo in chiave positiva (funzionamento e salute).

 

Il termine handicap è stato abbandonato, ed il termine disabilità è stato esteso a ricoprire la restrizione di attività e la limitazione di partecipazione.

 

L’ICF evidenzia che non sono i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone. Chiunque può trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità.

 

È in tale ambito che l’ICF si pone come classificatore della salute, prendendo in considerazione gli aspetti sociali della disabilità: se, ad esempio, una persona ha difficoltà in ambito lavorativo, ha poca importanza se la causa del suo disagio è di natura fisica, psichica o sensoriale. È importante intervenire sul contesto sociale costruendo reti di servizi significativi che riducano la disabilità.

 

La disabilità non è solo deficit, mancanza, privazione a livello organico o psichico, ma è una condizione che va oltre la limitazione, che supera le barriere mentali ed architettoniche. La disabilità è una condizione universale e pertanto non è applicabile solo alla persona che si trova su una carrozzina, che non vede o non sente.

 

L’ICF sottolinea l’importanza di valutare l’influenza dell’ambiente sulla vita degli individui: la società, la famiglia, il contesto lavorativo possono influenzare lo stato di salute, diminuire le capacità di svolgere mansioni che vengono richieste e costituire situazioni di difficoltà. L’ICF propone quindi un’analisi dettagliata delle possibili conseguenze sociali della disabilità, avvicinandosi con umanità e rispetto alla condizione disabile.

 

In conclusione è stato giustamente rilevato che con ICF il termine disabilità è stato sostituito da attività, e che handicap è stato sostituito da partecipazione.

 

Gli altri termini utilizzati sono i seguenti: condizione di salute, menomazione, limitazione dell’attività, restrizione della partecipazione, fattori contestuali, fattori ambientali, fattori personali. È uno schema in cui l’attività è al centro e che può essere più o meno sviluppata a seconda delle condizioni proprie dell’individuo, ma anche derivanti dal mondo esterno.

 

Sul piano giuridico internazionale la Convenzione ONU sui diritti dei disabili, approvata il 26 agosto 2006, è il primo trattato internazionale dedicato esclusivamente ai diritti delle persone diversamente abili, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per conferire dignità ai diritti umani dei soggetti con handicap.

 

Gli Stati che ratificano il trattato accettano di promuovere leggi e altre misure volte a migliorare il rispetto dei diritti dei disabili e ad abolire le disposizioni legislative e che discriminano le persone disabili.

 

La Convenzione riconosce che la disabilità è un concetto in evoluzione e che è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri. Esprime così la volontà di inquadrare le disposizioni sui diritti delle persone con disabilità nel quadro della tutela internazionale dei diritti umani. La Convenzione si fonda su un nuovo approccio alla disabilità facendo propri i principi del modello bio-psico-sociale della classificazione ICF dell’OMS. Su di essa si fonda anche il precetto della non discriminazione: la disabilità è un rapporto sociale, dipendente non solo dalle condizioni di salute di una persona, ma anche e soprattutto dalle condizioni ambientali e sociali in cui si trova.

 

La disabilità da elemento soggettivo diventa responsabilità collettiva e ciò segna una enorme differenza rispetto al passato recente, quando la categorizzazione delle persone con disabilità era frutto dell’individuazione, da parte del legislatore, di categorie specifiche differenziate dalla causa che ha originato la malattia o il disturbo.

 

Le distinzioni erano e sono spesso funzionali all’attribuzione di una diversa natura giuridica alla situazione o all’evento che ha determinato la minorazione stessa e al beneficio riconosciuto. L’approccio per categoria e/o funzionale all’erogazione di benefici ha però impedito l’elaborazione di una terminologia uniforme, e soprattutto di una definizione unitaria e rispettosa dei diritti della persona.

 

Antonino Attanasio